Il congedo dalle arti belle

«Che la bellezza (e, per converso, il suo opposto) si riferisca soprattutto all’arte ci pare oggi un’ovvietà che non merita di venire discussa. Eppure le «arti belle» si sono staccate molto tardi dalle rispettive tecniche artigianali – che richiedevano semplice apprendistato, abilità e pazienza – sia dalle «arti meccaniche», a lungo socialmente disprezzate».


«Sino a duecento anni fa, inoltre, intrinsecamente bella viene considerata in genere soltanto la natura, l’essere: il prodotto artistico lo diventa unicamente in quanto ne partecipa. Le premesse del mutato atteggiamento nei confronti del «bello artificiale» risalgono essenzialmente al trasformarsi del rapporto degli uomini con la natura. Allorché alcuni uomini riescono a conquistare un relativo dominio sul mondo fisico, controllandone e asservendone le energie mediante le scienze e le tecniche, né la natura né la sua mimesi soddisfano più interamente i nuovi e più vasti bisogni di senso sorti in seguito alle mutate circostanze. Anche se non diminuiscono per nulla le paure nei confronti del cosmo, si attenua la percezione della serena, limpida e immediata bellezza che gli era stata a lungo attribuita. Al contrario: quanto più il suo fascino diventa inquietante, tanto più il bello artistico ne viene esaltato, sino a trasfigurarsi in simbolo della creatività e della dignità recentemente conseguite dagli uomini, ormai desiderosi di imprimere sul mondo l’autonomo sigillo della loro specie vittoriosa (alla cui avanguardia viene posto l’artista)».

[Remo Bodei, Le forme del bello, Bologna 1995, pag. 9]

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Remo Bodei è professore di Filosofia presso la University of California a Los Angeles. Tra i massimi esperti delle filosofie dell’idealismo classico tedesco e dell’età romantica, si è occupato anche di pensiero utopico e di forme della temporalità nel mondo moderno. Ha inoltre indagato lo statuto delle passioni e le esperienze della soggettività tra mondo moderno e contemporaneo, pervenendo a una riflessione critica sulle forme dell’identità individuale e collettiva. Ha studiato i modelli filosofici del bello e del sublime, tracciando la parabola che ha condotto alla significazione estetica del brutto. Tra i suoi libri: Ordo amoris (Bologna 1991); Geometria delle passioni (Milano 1991); Le forme del bello (Bologna 1995); Destini personali (Milano 2002); Piramidi di tempo (Bologna 2006); Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia (Milano 2008); La vita delle cose (Roma-Bari 2009); Ira. La passione furente (Bologna 2011); Immaginare altre vite (Milano 2013); Generazioni (Roma-Bari 2014); La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel (Bologna 2014); La filosofia nel Novecento (e oltre) (Milano 2015). È Presidente del Comitato Scientifico del Consorzio per il festivalfilosofia.

Commedia-tragedia tra Beckett e Bacon

«L’arte contemporanea come arte della riflessione procede, dunque, dalla rappresentazione ironico-tragica del dissidio tra la “nostalgia di opera” del soggetto e il “risultato” della sua ricerca, attraverso gli “eroici” esperimenti delle avanguardie storiche per porvi rimedio, fino alla “resa” ironico-comica, fino all’opera come negazione dell’opera, all’arte come “morte dell’arte”, all’arte che non può rimandare oltre se stessa, all’arte che si “compie” nella impotenza del proprio operari a esprimere quella “soddisfazione” o “conciliazione” del soggetto col suo mondo, che l’“educazione estetica” sembrava assicurare. All’arte che “si svuota”, kenoticamente. Ma a un tale esito, davvero tragicomico, si perviene attraverso il grande Riso de-costruttivo di ogni forma o narrazione, Riso versus ogni logos pro-gettuale».

«È noto il detto hegeliano per cui di fronte all’arte del nostro tempo è impossibile sostare pregando. Ma è forse possibile un agire ancor più profondo: riflettere ridendo».

(Da Hegel a Duchamp, in Enciclopedia delle arti contemporanee (Milano 2010), passim)

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Massimo Cacciari è professore emerito di Estetica presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Ha rivolto la sua attenzione alla crisi dell’idealismo tedesco e dei sistemi dialettici, valorizzando la critica della metafisica occidentale propria di Nietzsche e di Heidegger e seguendo la genealogia del pensiero nichilistico nei classici della mistica tardo-antica, medievale e moderna. Tra i suoi libri: Icone della legge (Milano 1985); L’Angelo necessario (Milano 1986 e 1992); Dell’inizio (Milano 1990); Della cosa ultima (Milano 2004); Dallo Steinhof (Milano 2005); Tre icone (Milano 2007); La città (Rimini 2009); Hamletica (Milano 2009), Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto (Milano 2012); Il potere che frena (Milano 2013); Labirinto filosofico (Milano 2014); Filologia e filosofia (Bologna 2015). Utili ai fini della rassegna anche i saggi: Da Hegel a Duchamp, in Enciclopedia delle arti contemporanee (Milano 2010) e Il produttore malinconico, in Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Torino 2014).

Come le cose diventano opere d’arte

«Ciò che sta accadendo è un cambiamento epistemologico della nozione di arte. Il fatto è che l’arte, così come è stata intesa nella modernità, non basta più a se stessa. Non è più il centro intorno a cui ruotano le dinamiche della valorizzazione e della credibilità, le quali vertono su esperienze personali o collettive di carattere sociale, morale e filosofico».

«Nulla è di per se stesso arte. Esso lo diventa attraverso molti fattori: la maniera in cui l’autore pensa la propria attività, il contesto diacronico e sincronico in cui si pone, il lavoro di mediazione ermeneutica cui è sottoposto, la ricezione del pubblico e della critica, la manipolazione cui i mass media lo assoggettano, la conservazione di ciò che è stato fatto. Ne deriva che l’arte è tutto questo insieme di azioni e reazioni, teorie e iniziative, oggetti e racconti, documenti e materiali del più vario genere».

[Mario Perniola, L’arte espansa, Torino 2015, pagg. 36 e 45]

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Mario Perniola, già professore di Estetica presso l’Università di Roma “Tor Vergata”, ha contribuito al dibattito sull’arte con numerosi studi estetici e inteventi critici. A partire dallo studio di alcuni classici del pensiero contemporaneo (Nietzsche, Heidegger, Bataille, Klossowski), si è occupato dell’avanguardia, con particolare attenzione allo sperimentalismo narrativo e ai fenomeni del “post-umano” nell’arte e nella sessualità condensati nei concetti di simulacro e ripetizione. Da ultimo ha approfondito i fenomeni di “artistizzazione” diffusa del tempo presente. Tra i suoi libri: Enigmi (Genova 1990); Del sentire (Torino 1991); Il sex appeal dell’inorganico (Torino 1994); Disgusti. Le nuove tendenze estetiche (Genova 1998); L’arte e la sua ombra (Torino 2000); Contro la comunicazione (Torino 2004); Miracoli e traumi della comunicazione (Torino 2009); Più che sacro, più che profano (Milano 2010); L’estetica contemporanea (Bologna 2011); L’avventura situazioni sta. Storia critica dell’ultima avanguardia del XX secolo (Milano 2013); L’arte espansa (Torino 2015).

Nell’atelier di Nan Goldin

«Mi è difficile parlare del lavoro di Nan Goldin senza parlare innanzitutto di lei; la mancanza di distanza da tutto quanto ho da dire mi impedirebbe di scrivere. E potrei anche sentirmi un po’ ridicolo. La conosco da molti anni e ho lavorato con lei in molte parti del mondo, in Europa e oltre, per incarichi professionali o per puro piacere. Mi ha fotografato più spesso di quanto io ricordi e la sua “famiglia”, composta dai tanti amici sparsi per il mondo, è anche la mia. […]


Goldin è prima di tutto un’artista romantica, anti-ideologica e con la mano leggera, più etica che moralista. Il suo lavoro va oltre le tradizionali convenzioni della fotografia (intesa, cioè, come rappresentazione della realtà) e solleva questioni come il rapporto tra verità e simulazione, storia individuale e collettiva, prosa e poesia. È riuscita a creare narrazioni che intersecano tutta la storia “ufficiale” e i suoi confini categoriali. Perciò, fare domande sul suo lavoro è come entrare in una infinità di specchi».


(Guido Costa, Nan Goldin, New York 2005, p. 1 e p. 2)

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Guido Costa è titolare della Guido Costa Projects, galleria torinese che si occupa prevalentemente di fotografia, video, scultura, performance e installazioni, con particolare attenzione alla creatività degli ultimi trent’anni. Laureato in Estetica, dopo aver insegnato nei Licei e svolto numerose collaborazioni editoriali, entra nel mondo dell’arte dapprima come curatore e quindi come gallerista. Tra gli artisti cui ha legato la sua attività si possono ricordare Peter Friedl, Paul Fryer e Nan Goldin, l’autrice più rappresentativa del portfolio di Costa e che meglio rappresenta la tendenza del suo lavoro galleristico. Ha curato Nan Goldin (Milano 2010).


Nan Goldin (Washington DC,1953) comincia a fotografare adolescente, con scatti intensamente personali, spontanei e trasgressivi dei suoi familiari, amici, amanti. Cresciuta artisticamente nella controcultura newyorkese di fine anni ’70, diviene una vera e propria icona della cultura underground, interprete di un’arte “totale”, intima e impegnata ad un tempo. La consacrazione internazionale avviene a seguito di due grandi retrospettive itineranti che tra il 1996 e il 2004 toccano i maggiori musei internazionali. Presente nelle più significative collezioni pubbliche e private al mondo, è stata insignita del titolo di Commendatore delle Arti e delle Lettere dal Governo francese. Vive e lavora a Parigi. In Italia il suo lavoro è rappresentato da Guido Costa Projects di Torino.

Nell’atelier di Christian Boltanski

«Vi sono opere nella produzione artistica di Christian Boltanski, forse le più note al pubblico, che inequivocabilmente trasmettono un tragico senso di morte […] Sono sale cosparse di fiori che rinsecchiscono o marciscono ai piedi di un’immagine morta, sono cumuli di vestiti ripiegati e accatastati su sterili ripiani, sono sarcofagi di cristallo con i loro veli sepolcrali, sono muri di scatole di cartone o di zinco su cui è riconoscibile il nome o la fotografia di una ignota presenza. È il senso ultimo del passaggio, della fine di un tempo, è il tormento di un ricordo senza pace, è la domanda insoluta sul senso della nostra presenza».


(Danilo Eccher, Christian Boltanski: l’arte di un ricordo liquido, in: Christian Boltanski, Milano 1997, pag. 20)

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Danilo Eccher, curatore e critico d’arte, ha lavorato per giornali quali «Arte Cultura», «D’Ars», «La Vernice», «Flash Art». Ha diretto la GAM, Galleria d’Arte Moderna di Bologna (1996-2000), il MACRO, Museo di Arte Contemporanea di Roma (2001-2008), ARCOS, Museo d’Arte Contemporanea del Sannio di Benevento (2004-2009) e la GAM-Galleria Civica di Arte Moderna e Contemporanea di Torino (2009-2014). Ha insegnato nei corsi di specializzazione presso l’Università di Bologna, l’Università “La Sapienza” di Roma e la LUISS di Roma. Curatore di numerose personali, di particolare rilievo per la presente rassegna si ricordano quelle di Christian Boltanski (GAM di Bologna, 1997 e MACRO, 2006). Tra le sue pubblicazioni, si ricorda in particolare Christian Boltanski. Pentimenti (con D. Soutif, Bologna 1997).


Christian Boltanski (Parigi, 1944), dopo gli esordi come pittore si è affermato soprattutto per le sue installazioni in cui assembla oggetti comuni come depositi di ricordo: accanto a opere di ricostruzione della propria autobiografia ha realizzato memoriali di scomparsi senza nome. Nell’attraversamento tra vari media (video, fotografia, teatro), ha messo al centro della sua pratica artistica soprattutto il tema della memoria e dell’assenza come si rivela nelle esperienze di perdita, di scarto e di lutto, tanto sullo sfondo di grandi eventi drammatici (come la Shoah o l’abbattimento del volo su Ustica), quanto nelle ordinarie biografie individuali. Ha esposto, tra l’altro, a Documenta, Kassel (1972, 1987), alla Biennale di Venezia (1986), a quella di Parigi (1975) e a Monumenta, Parigi (2010).

Nell’atelier di Giuseppe Penone

«L’opera di Giuseppe Penone insiste sull’uomo come occasione e non soggetto del sentire. Ha di mira le impressioni dei sensi, quelle rivelazioni che, prima di offrirsi alla coscienza, lasciano che soggetto e oggetto non siano presupposti, ma accadano su una soglia che è la pelle del mondo.


«L’arte di Penone deriva dal lasciarsi appartenere al cielo e alla terra. […] L’imprimersi nei sensi, l’offrirsi come impronta è la compresenza del sé e del mondo, la linea che non appartiene all’uno o all’altro, ma segna l’incontro e l’orizzonte di un agire che ha i connotati dell’impossibilità e dell’assolutezza e che esige l’opera estrema, unica ed eterna: non attingere a un presunto originario, ma abitare questa incolmabile distanza dalla propria genesi»


«Stringere l’albero sapendo che il tronco ricorderà il contatto della mano e modificherà la propria crescita così come lasciare la misura delle braccia con l’altezza e lo spessore del corpo lungo il corso di un fiume che attraverserà permanentemente tale impronta somatica sul proprio letto: sono gesti che collocano la scultura nel tempo piuttosto che nello spazio».


(Gianfranco Maraniello, Prefazione agli scritti di Giuseppe Penone, in G. Maraniello, J. Watkins, Giuseppe Penone Scritti 1968-2008, MAMbo 2009, pagg. 6 e 8)


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Gianfranco Maraniello è Direttore del MART – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto. Ha diretto anche GAM – Galleria d’Arte Moderna di Bologna, poi MAMBO – Museo d’Arte Moderna di Bologna e infine l’Istituzione Bologna Musei. Nel 2006 stato curatore della Biennale internazionale d’arte contemporanea di Shanghai. È stato docente in Master presso la LUISS di Roma e l’Accademia di Brera. Nella sua attività curatoriale ha realizzato mostre, tra gli altri, di Morandi, De Chirico, Penone, Zorio, Calzolari, Guerzoni. Di particolare significato per la presente rassegna, Giuseppe Penone. Scritti (1968-2008), con J. Watkins (Bologna 2009).


Giuseppe Penone (Garessio, 1947), esordisce alla fine degli anni Sessanta all’interno del movimento della “arte povera”. Tra i temi centrali della sua opera vi è il rapporto tra il corpo umano e la natura attraverso la superficie di confine tra io e mondo rappresentata dalla pelle. Molte sue opere sono calchi di corpi su superfici naturali come i tronchi d’albero, così che l’impronta che ne deriva indichi la memoria di un’assenza e il costante cambiamento della materia. Alla sperimentazione sui materiali e alle loro trasformazioni sono dedicate molte installazioni sia per interni che per esterni. Ha esposto, tra l’altro, a Documenta, Kassel (1972, 1987), alla Biennale di Venezia (1978, 2007), al Museum of Modern Art di New York (1981) e al Centre Pompidou di Parigi (2004).

Venerdì 8 gennaio 2016, ore 18

Fondazione “Marco Biagi”

Il congedo dalle arti belle

Venerdì 15 gennaio 2016, ore 18

Fondazione "Marco Biagi"

Commedia-tragedia tra Beckett e Bacon

Venerdì 22 gennaio 2016, ore 18

Fondazione "Marco Biagi"

Come le cose diventano opere d’arte

Venerdì 29 gennaio 2016, ore 18

Fondazione “Marco Biagi”

Nell’atelier di Nan Goldin

Venerdì 5 febbraio 2016, ore 18

Fondazione “Marco Biagi”

Nell’atelier di Christian Boltanski

Venerdì 12 febbraio 2016, ore 18

Fondazione “Marco Biagi”

Nell’atelier di Giuseppe Penone